Via Flaminia

La via Flaminia fu costruita alla fine del III secolo (223 o 220 a.C.) per collegare (attraverso la valle del Tevere, l’agro falisco, l’Umbria e il Piceno) Roma con l’ager Gallicus, che in quegli anni Caius Flaminius, da cui essa derivò il nome, annetteva al territorio della Repubblica: la stazione terminale della via, Ariminum, fu la base operativa per la conquista della Gallia Cisalpina.

La Flaminia, come altre strade romane, doveva consentire di raggiungere nel minor tempo possibile, per ragioni prevalentemente di ordine militare o amministrativo, zone di confine da colonizzare nell’ambito della politica espansionistica di Roma repubblicana. Ma è verosimile che il suo tracciato abbia ricalcato più antichi percorsi. Già prima dell’organizzazione augustea della cura viarum risultano attestati curatores delle vie principali: in particolare fu curator viae Flaminiae, nel 65 a.C., C. Minucius Thermus (M.T. Cicero, Epistulae ad Atticum, I, 1, 2), forse il costruttore del ponte Minucius. Ma dopo due secoli di vita la strada, che superava accidentali rilievi con tagli, terrazzamenti, viadotti e ponti, richiesti dall’andamento a tratti prevalentemente rettilinei, necessitava di impegnativi interventi di restauro il cui onere Augusto si assunse personalmente, delegando la sistemazione delle altre vie cui impose di destinare parte del bottino di guerra (C. Suetonius Tranquillus, Vita Augusti, 30). Come riferisce egli stesso nel suo testamento (Monumentum Ancyranum, IV, 19-20; VI, 6-9) e come confermano Cassio Dione (LIII, 22, 1-2; LIV, 22) e Svetonio (Vita Augusti, 37, 1), ne rifece il lastricato, ricostruendo tutti i ponti, tranne Ponte Milvio ed il Minucio. A conclusione dei lavori, due archi commemorativi con le immagini di Augusto furono eretti su Ponte Milvio ed all’ingresso di Ariminum.

Al restauro augusteo sembrano appartenere le opere ingegneristiche superstiti, tra le quali l’imponente viadotto detto Muro del Peccato presso Civita Castellana e l’audace ponte sul Nera a Narni; altri restauri di minore entità sono attestati sotto gli imperatori successivi, sino al tardo impero.

La via Flaminia fu sempre una delle più frequentate strade romane (C. Cornelius Tacitus, Historiae, II, 64: «… vitata viae Flaminiae celebritate… ») e, tramite il collegamento con la via Emilia, utilizzata anche per raggiungere le province occidentali (ne costituiscono una prova alcuni cippi miliari della Gallia meridionale e della Liguria, sui quali sono riportate le distanze per Ariminum, stazione terminale della Flaminia).

Ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende militari della guerra civile, negli avvenimenti successivi alla morte di Nerone (69 d.C.), nella marcia vittoriosa di Costantino contro Massenzio (312 d.C.), ed infine nel corso della guerra gotica. Nell’ordinamento dioclezianeo dell’Italia da essa prese nome la regione Flaminia et Picenum, e la via mantenne inalterata la sua importanza nel tardo impero e nell’alto Medioevo, assicurando il collegamento tra Roma e la nuova capitale, Ravenna (tanto da essere anche denominata via Ravennana), attraverso la città longobarda di Spoletium; ma la moltitudine dei pellegrini diretti dal nord alla tomba dell’apostolo Pietro percorreva anche la via Francigena che, superando l’Appennino presso Luni, raggiungeva a Bolsena la Cassia.

La lunghezza complessiva della Flaminia è indicata variamente negli antichi itinerari; ciò è spiegabile in parte con la presenza di due diversi tracciati in territorio umbro. La lunghezza indicata nell’Itinerarium Hierosolimitanum (333 d.C.) di 223 miglia sembrerebbe la più esatta poiché, prima di Ariminum, esiste un cippo con l’indicazione del CCXXII miglio. Dagli itinerari si desumono, inoltre, le stazioni di posta lungo la via, alcune delle quali in corrispondenza di centri preesistenti, altre divenute da semplici luoghi di sosta vere e proprie città (come Carsulae). Nel tratto compreso tra Roma e Ocriculum (Otricoli) sono indicate:

Pons Milvius al III miglio (Tabula Peutingeriana – di età medievale ma derivata da un originale del tardo impero);

Ad Rubras al IX miglio (Tabula Peutingeriana, Itinerarium Hierosolimitanum);

Ad Vicesimum al XX miglio (Tabula Peutingeriana, Itinerarium Hierosolimitanum);

Rostrata Villa al XXIII o XXIV miglio (Itinerarium Antonini – dell’epoca di Caracalla);

Aqua Viva al XXXII miglio (Tabula Peutingeriana, Itinerarium Hierosolimitanum).

Il tratto del percorso che va dal Soratte al guado del Tevere presso Otricoli fu forse affiancato nel medioevo da altri che collegavano le fortezze poste a controllo delle valli del Treia e dei suoi affluenti con Civita Castellana, divenuta il centro principale della regione e sede episcopale; ma la modifica dell’antico tracciato, con l’abbandono del tratto rettilineo ad ovest del Soratte e l’apertura del nuovo percorso sino a Civita Castellana e da qui sino a Borghetto, fu opera del pontefice Paolo V (1606); a Sisto V (1589) e Clemente VII (1603) si deve anche la costruzione del Ponte Felice sul Tevere, più a valle dell’antico ponte romano i cui resti, visibili sino al 1673, erano detti «le Pile di Augusto».

Costanti misure dell’amministrazione pontificia per la manutenzione del tratto suburbano della via consolare (cui nell’alto Medioevo dovette forse provvedere la domusconsulta di S. Leucio, ubicata al V miglio della Flaminia) sono documentate a partire dal ‘400: elenchi di comuni e tenute assoggettati a tasse per il restauro della strada risalgono al 1468, al 1558, al 1560, ed un intervento del 1580 è ricordato da un’epigrafe tuttora murata sulla facciata della Stazione di Posta di Castelnuovo di Porto. Alla fine del ‘700 il papa Pio VI, collegando Civita Castellana alla Cassia tramite la via Amerina, ridusse molto l’importanza del tratto suburbano della via Flaminia; nel 1778 fu anche soppresso il servizio postale che da Roma raggiungeva Civita per Prima Porta, Malborghetto, Castelnuovo e Rignano.

La regione attraversata dalla Flaminia nel suo tratto suburbano era nell’antichità, sino ad almeno il XIV miglio, l’antico ager veientanus, mentre più a nord l’area tra il Tevere ed il Soratte era controllata dai Capenati, quella ad ovest dai Fallisci. Dopo la sottomissione dei tre popoli confinanti le loro città principali, Veio, Capena e Faleri, accolsero colonie romane, ed il territorio circostante si popolò di ville e fattorie, collegate alla via consolare da diverticoli che si aggiunsero all’antica viabilità locale. A seguito dello spopolamento delle campagne causato dalle ripetute invasioni barbariche e, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente (476 d.C.), dalla guerra greco-gotica (535-553), i papi Zaccaria (741-752) ed Adriano I (780) rivitalizzarono l’organizzazione rurale antica con la creazione delle domusconsultae, vastissimi latifondi ad agricoltura mista con massae (campagne), fundi (fattorie), casales (edifici delle fattorie): lungo la via Flaminia sorsero quella di S. Leucio, al V miglio presso Tor di Quinto, e quella di Capracorum presso l’antica Veio, comprendente la parte settentrionale dell’ager veientanus e la parte meridionale dell’ager faliscus.

Ma le incursioni saracene, nonché il declino dell’autorità papale e la conseguente mancanza di sicurezza, determinarono gradualmente l’abbandono degli insediamenti sparsi e aperti per l’arroccamento in luoghi, talora lontani dalle grandi vie di comunicazione, dove le difese naturali potevano essere rafforzate da fossati, mura e torri. Discordi sono i pareri sul momento di tale trapasso: i secoli IX e X, quando i Saraceni attraversavano l’Italia centrale, o già il periodo tra VII e VIII secolo; ma non si può escludere che l’incastellamento sia nato ancor prima di una programmata iniziativa dei militari bizantini. Comunque, la più antica menzione dei castelli del territorio risale alla seconda metà del X secolo: Mazzano compare nel 945, Castel Paterno nel 955, Rignano nel 962, Calcata nel 974, Pietra Pertusa nel 980, Morolo nel 996, Stabia nel 998.

Gli insediamenti medievali a nucleo compatto sono in alcuni casi disposti all’estremità di promontori delimitati dalla confluenza di fossi, in altri su formazioni rocciose con pareti a picco: comprendono costantemente una torre interna, una cinta muraria ed abitazioni in parte rupestri (talora a due piani di cui l’inferiore adibito a stalla), con pozzi e cisterne; la chiesa è in genere esterna all’abitato; forse frequente era l’impiego dei sottostanti corsi d’acqua per la costruzione di mole granarie.

Nel basso Medioevo, a seguito delle donazioni dei Longobardi (Liutprando, 728) e dei Franchi (Carlo Magno, 774) il territorio della Tuscia si avviò a costituire il più antico nucleo dello Stato Pontificio, il Patrimonium Sancti Petri, in parte gestito da comunità religiose o dalle prime grandi famiglie feudali romane, quali quella dei Conti di Muscolo: il più illustre rappresentante di questa, Alberico, principe di Roma tra il 932 ed il 952, favorì i Benedettini, ed i Monaci di S. Paolo fuori le Mura estesero gradualmente i loro possedimenti da Nepi al Soratte. L’emergere dell’aristocrazia romana portò poi il territorio ad ovest della Flaminia in gran parte sotto il controllo degli Orsini e degli Anguillara, quello ad est dei Colonna, degli Orsini e dei Savelli, sino alla riappropriazione da parte della chiesa ad opera del cardinale Egidio d’Albornoz (1353) per volere di Innocenzo VI; il processo fu poi compiuto da Sisto V alla fine del’500.

Molti dei centri fortificati si spopolarono e vennero in parte abbandonati tra il 1350 ed il 1550: crebbero d’importanza invece quelli più prossimi alle grandi vie di comunicazione, ormai ridivenute sicure, e si tornò, con la creazione dei Casali, al sistema antico dell’occupazione del territorio con insediamenti rurali sparsi. A questa epoca risale la più antica immagine della Campagna Romana, la preziosa carta di Eufrosino della Volpaia (1547), mentre l’assetto delle tenute con i relativi casali compare nelle pittoresche immagini del Catasto voluto nel XVII secolo da Alessandro VII (vedi figura). Il declino del potere della Chiesa nel ‘700 comportò per tutto il comprensorio gravitante sulla Flaminia un periodo di stasi, sino all’annessione al Regno d’Italia.

 

Via Flaminia a Rignano

Dal km 35,500 al km 36,200 il basolato della Flaminia è conservato pressoché integralmente sul margine destro della via moderna; soltanto tra il km 37 ed il km 37,600, ad est del Monte Castagna, il lastricato passa a sinistra di un’ampia curva della strada moderna, che ha qui un andamento sinuoso, poi a partire dal km 38 riappare sulla destra sino alle porte di Rignano.

Poco prima di Rignano, tra il km 38,500 ed il km 39, nella località Colle La Croce e Monte Casale, poste ai lati del tracciato della Flaminia, si rinvennero settori di una necropoli con tombe a fossa (VIII sec. a.C.) ed a camera (IV-II e I sec. a.C.): la necropoli conferma che sul sito di Rignano doveva essere ubicato un centro antico del territorio capenate, sopravvissuto anche in età romana. La via Flaminia fu costruita alla fine del III secolo (223 o 220 a.C.) per collegare (attraverso la valle del Tevere, l’agro falisco, l’Umbria e il Piceno) Roma con l’ager Gallicus, che in quegli anni Caius Flaminius, da cui essa derivò il nome, annetteva al territorio della Repubblica: la stazione terminale della via, Ariminum, fu la base operativa per la conquista della Gallia Cisalpina.