Chiesa SS. Vincenzo e Anastasio
L’origine della chiesa non è certa, ma sicuramente era già esistente in età medioevale (1100-1200), come attestato anche dalle sepolture rinvenute durante i lavori di restauro degli anni 1980. Dell’antica chiesa rimangono due finestre ogivali, una sulla facciata ed un’altra, richiusa, sul fianco, ed il portale minore; il campanile a base quadrata è costruito in blocchi di tufo come parte del fianco della Chiesa, ed ha un solo piano di bifore.
L’interno a tre navate, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli, testimoniati della ricchezza di decorazioni ad affresco che coprono un vasto arco di tempo dal sec. XIV al XVII.
Di notevole fattura è l’acquasantiera con lo stemma Savelli (datata AN.D/M.D.L.XXVIII e con l’iscrizione JO.BAP.CAPITIS / ARCHIPRES. PIIS / ELMO. FACIEN / CURAVIT), ed il tabernacolo marmoreo in bassorilievo (datato XV secolo) in fondo alla navata centrale.
Molti pilastri della navata conservano frammenti di affreschi con immagini di Santi e Madonne con Bambino dei secc. XIV-XVI.
Particolarmente importante è la Cappella della Santa Croce, in fondo alla navata sinistra, juspatronato della nobile famiglia Borghese, divenuta nel 1606 proprietaria di Rignano. La cappella è riccamente decorata con scene legate al ritrovamento della Santa Croce, opera del pittore fiorentino Anastasio Fontebuoni. Il Crocifisso ligneo è databile anch’esso ai primi del ‘600. Paolo V concesse alla Cappella particolari indulgenze, come ricorda un’iscrizione sulla parete destra.
Intorno al quarto decennio del 1600 vengono ridecorate alcune cappelle della navata destra.
Il restauro del 2011 ha riportato alla luce il ciclo di affreschi della zona absidale con le storie dei Santi Abbondio e Abbondanzio e le immagini dei titolari della chiesa, Vincenzo, Anastasio e Nicola.
Nel presbiterio è collocato un prezioso trittico raffigurante Il Salvatore e due Santi, opera di artista emiliano o lombardo dei primi del ‘500.
Intorno al quarto decennio del 1600 vengono ridecorate alcune cappelle della navata destra:
la prima Cappella fu dedicata, per espressa volontà di papa Gregorio XIII, alla Beata Vergine del Rosario in ricordo della vittoria della flotta cristiana su quella turca a Lepanto (1571). Attualmente la tela del Rosario è conservata nell’ultima cappella della navata. L’altare maggiore, pur presentando una struttura in stucco del 1600, conserva frammenti di affreschi databili tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500. La decorazione della volta comprende quattro scene della vita della Vergine del pittore sabino Vincenzo Manenti : la vivacità della tavolozza, tipica dello stile dell’artista, accompagna e sottolinea l’aspetto descrittivo e narrativo e riconduce ad una dimensione nuova e familiare le vicende sacre. Sul lato destro è l’affresco raffigurante la Messa di San Gregorio, opera seicentesca.
Il pittore decorò anche la terza cappella, dedicata a San Vincenzo e Sant’Anastasio, con episodi della vita dei Santi nella volta: la fustigazione e decapitazione di Sant’Anastasio, San Vincenzo che ammonisce il drago, San Vincenzo in carcere e l’Assunzione della Madonna. Da notare in questi affreschi la sensibilità cromatica che costituisce uno degli elementi più interessanti dello stile del Manenti.
In fondo alla navata è la sede dell’Arciconfraternita di San Giovanni decollato con bella pala dei primi del ‘600, alla quale nel 1608 Papa Paolo V concesse di salvare ogni anno un condannato a morte.
Annesso alla Chiesa, sul lato sinistro, vi è l’Oratorio della Confraternita del Gonfalone, nel quale si può ammirare la pala d’altare raffigurante la Natività della Vergine, di scuola romana del XVI secolo .
Sulla controfacciata, nel restauro del 2011, è riaffiorato l’affresco con la Trinità, notevole opera di fine ‘500.
Durante i lavori di restauro eseguiti negli anni 1980 sono riemerse le tombe poste sotto il pavimento della Chiesa, e la cripta destinata alla sepoltura dei sacerdoti. L’uso delle sepolture all’interno delle chiese cessò alla fine del Settecento, in ottemperanza all’editto di Saint Cloud di Napoleone che, per motivi igienici, vietava le sepolture nei centri abitati.
Sul sagrato è posta una colonna tortile romana con capitello corinzio, su una base con iscrizione (su quattro righe di altezza disuguale: D M S, PONTIAE, AF, MODESTAE – databile I-II sec. d.C.).
TRITTICO del SS. SALVATORE
Il Salvatore benedicente tra due Santi
Tempera su tavola
Tavola centrale cm 163 x 55
Pannelli laterali cm 163 x 34
Artista di ambito settentrionale, inizi secolo XVI
Il trittico su tavola proviene dalla seconda cappella a destra, originariamente dedicata al Salvatore, ma nel ‘600 intitolata ai SS. Vincenzo e Anastasio, cui è dedicata la Chiesa.
Esso ripropone uno dei temi sacri più vicini alla venerazione popolare in territorio laziale: il Salvatore benedicente. L’origine di questo soggetto risale alla tradizione medioevale romana ed ha il suo punto di riferimento nell’immagine Acheropita del Salvatore lateranense, considerato per tradizione dipinto da mano soprannaturale.
La diffusione dell’immagine del Salvatore in territorio romano e viterbese a partire dal 1400, si deve soprattutto all’opera del pittore Antoniazzo Romano che, pur mantenendo nell’impostazione generale della figura il riferimento al prototipo medioevale, ne offre una interpretazione più libera ed aggiornata, di grandissimo successo. Rispetto alle numerose versioni antoniazzesche, il Salvatore di Rignano presenta alcune modifiche iconografiche: il manto appoggiato sulla spalla del Cristo richiama l’antico pallio dell’immagine medioevale (Cristo di Sutri, sec. XII-XII) e sul libro aperto compare la scritta EGO SUM SALVATOR MUNDI, in luogo di quella tradizionalmente adottata dalle immagini antoniazzesche (Ego sum lux mundi, via veritas et vita – NT, Giovanni, VII, 12), forse a sottolineare il carattere salvifico dell’immagine.
Incerta, invece, l’identificazione dei due Santi dipinti sulle ante laterali: è infatti da escludere l’ipotesi che si tratti dei SS. Vincenzo e Anastasio, in quanto il primo fu diacono, il secondo monaco, mentre le due figure del trittico rappresentano un Papa o Vescovo, ed un Santo martire in abbigliamento genericamente sacerdotale.
Il trittico di Rignano contiene una quantità di suggestioni artistiche che hanno reso problematico giungere ad una attribuzione certa, suscitando un ampio dibattito fra gli studiosi: una scheda redatta di recente da Flaminia Santarelli ripercorre con chiarezza le fasi interpretative ed attributive dell’opera.
Nel 1934 il Van Marle avanza una ipotesi attributiva al pittore Marcantonio Aquili, figlio del più noto Antoniazzo Romano, ponendola a confronto con il trittico della Resurrezione di Rieti, e collocando quindi l’opera rignanese in ambito romano.
Ilaria Toesca, che ne promuove il restauro nel 1970, ritiene invece che il dipinto sia da collocare in un ambito culturale settentrionale, evidenziando le affinità con l’opera di Amico Aspertini: l’artista emiliano, del quale è noto un soggiorno a Roma intorno agli anni 1503-1504, interpreta con un linguaggio personalissimo suggestioni tratte dall’antico, letto con sentimento melanconico ed inquieto, prossimo allo stile di Filippino Lippi. L’originalità di questo linguaggio si può individuare nelle due figure di Santi, tipologicamente e fisionomicamente prossimi alle figure dell’Aspertini.
La tavola centrale, con il Salvatore, presenta invece suggestioni raffaellesche, che possono giustificare la tradizionale attribuzione alla scuola del Perugino; la figura del Cristo è descritta con tratto ampio e severo, in contrasto con il groviglio frastagliato di nuvole su cui poggia.
Quest’ultimo elemento viene confrontato dalla Toesca con le nuvole della pala dipinta dall’Aspertini ora nella Pinacoteca di Lucca (1511).
Il dibattito attributivo si arricchisce con l’ipotesi di Giusti (1983) che propone la paternità del trittico all’artista lombardo Cesare da Sesto, evidenziando i caratteri leonardesche del dipinto; questa affermazione viene tuttavia contestata da altri studiosi (Scricchia, Santoro e Carminati), che interpretano l’arcaicità dell’insieme compositivo e la rigida specularità delle figure dei Santi come un indizio di povertà formale che non trova riscontro nell’opera del grande artista lombardo.
Tale varietà di suggestioni rimanda quindi ad un artista di ambito settentrionale, vicino all’emiliano Aspertini, ma che aggiorna la sua cultura attraverso la conoscenza dell’arte romana, in particolare
raffaellesca.
Chi sono i Patroni di Rignano Flaminio a cui è dedicata la Chiesa Collegiata?
La liturgia onora unitamente la memoria dei due santi il 22 gennaio.
Anastasio. Nacque in Persia all’inizio del VII secolo, e il suo nome originario era Magundat. Reclutato nell’esercito del re Cosroe, il giovane si avvicinò dalla religione cristiana e disertò per recarsi a Gerusalemme dove ricevette il battesimo e il nuovo nome di Anastasio (“il risorto”), ritirandosi in un monastero dove divenne fulgido esempio di virtù e pietà.
Un giorno, avendo incontrato dei maghi persiani che celebravano i loro riti, ne contestò l’opera, professando pubblicamente la propria fede: fu arrestato e tenuto a lungo in carcere, ma non rinnegò la propria fede.
Inviato in Persia, inutili furono i nuovi tentativi per ottenere la sua abiura, finché il re Cosroe, irritato per la sua resistenza, ordinò di sottoporlo a tortura.
Dopo quindici giorni di supplizi e di sofferenze, Anastasio fu portato con altri settanta cristiani sulla riva di un fiume, e i soldati cominciarono a strangolarli uno ad uno con lacci di cuoio. Dopo ogni esecuzione il capo degli aguzzini chiedeva ad Anastasio di abiurare per aver salva la vita, ma inutilmente. Fu strangolato e poi decapitato, il 22 gennaio 624. Pochi anni dopo la reliquia della sua testa era già venerata alle Tre Fontane a Roma.
Vincenzo. Nacque alla fine del III secolo a Huesca, cittadina spagnola della provincia aragonese, da nobile famiglia romana. Fu affidato al vescovo di Saragozza, Valerio, che lo avviò alla carriera ecclesiastica, divenendo in breve il braccio destro del vescovo.
Quando l’imperatore Diocleziano scatenò le sue spietate persecuzioni, Valerio e Vincenzo, noti in tutta l’Aragona per la loro grande dottrina, furono arrestati dai soldati romani, ma rifiutarono di sacrificare agli dei pagani. Mentre Valerio, a causa dell’età e delle condizioni di salute, fu esiliato, Vincenzo fu sottoposto a crudeli sevizie che lo condussero alla morte a Valencia.
Il prefetto, per paura che il suo corpo fosse recuperato dai cristiani, ordinò che fosse gettato in un campo aperto, e successivamente lo fece gettare in mare dentro un sacco con una grande pietra. Ma il corpo, gettato sulla spiaggia dalle onde, fu recuperato da alcune pie donne che lo seppellirono in una cappelletta, dove riposò fino al 1173. In quell’anno Alfonso I, re del Portogallo, lo fece traslare in una Chiesa a Lisbona a lui dedicata. Due secoli dopo, nel 1370, alcune sue reliquie furono portate a Roma all’Abbazia delle Tre Fontane, di cui il Santo divenne da quel giorno contitolare insieme con Sant’Anastasio.
Museo Parrocchiale presso la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio
Voluto e realizzato dalla Pia Unione-Comitato dei Santi Patroni nel 2001, raccoglie oggetti sacri e legati alle tradizioni storiche e religiose della città.